Check Podcast # 10 - rubrica pubblicata sul numero di Luglio 2022 di Style Magazine- intervista completa a Silvia Gambi -
Economia circolare, fast fashion e conseguenze: questo ed altro ancora nel podcast Solo Moda Sostenibile. Leggi l'intervista integrale a Silvia Gambi
A seguire l’intervista completa a Silvia Gambi
Vorrei chiederle per prima cosa quando e perché nasce l’idea del podcast Solo Moda Sostenibile? Come mai la scelta dell’audio?
Il podcast è nato nel novembre 2021 ed è un progetto al quale pensavo da tempo. Sono sempre stata appassionata di podcast, trovo l’ascolto molto rilassante e volevo provare a fare un progetto mio. Mi occupo di moda sostenibile da tempo e mi ero resa conto che tutti i contenuti più interessanti su questo tema sono disponibili in inglese. Da qui l’idea di fare un prodotto tecnico, in italiano, a disposizione di tutti. Poi sono venuti anche il magazine on line e la newsletter settimanale e oggi Solo Moda Sostenibile è una vera e propria piattaforma di contenuti di settore.
Immagino che vivere a Prato sia stato rilevante in questo processo di sensibilizzazione al tema... ha ricordi specifici nella sua vita che oggi reputa fondamentali per la sua crescita professionale nell’ambito tessile, magari delle specie di tappe che hanno definito il suo percorso di ricerca?
Io lavoro con il settore tessile da oltre 20 anni, spesso occupandomi di comunicazione, strategie, eventi. A Prato il tessile si respira nell’aria e sono sempre stata attratta da questo settore. In particolare mi occupo da tanti anni di riciclo tessile: qui a Prato lo facciamo da 150 anni ed è una cosa straordinaria. Ho provato a raccontarlo nel documentario “Stracci” che ho scritto insieme a Tommaso Santi, che ne è anche il regista, e che è disponibile su Prime Video (clicca qui per saperne di più).
Parlando più in generale, invece, riesce ad identificare un momento storico in cui si è iniziato a riflettere veramente sulla Green Economy e sull’impatto che i tessuti e l’industria della moda stavano avendo sull’ambiente?
Nel 2008, insieme alla Camera di Commercio, ho fatto nascere il marchio Cardato Regerenated CO2 neutral: consisteva nel misurare le emissioni nella produzione dei tessuti riciclati e poi annullarle partecipando a progetti specifici. Da poco si parlava di green economy e ne ero rimasta affascinata. Era troppo presto, però, il mercato non era pronto a recepire questo concetto. Sembra impossibile, ma ancora nessuno si era chiesto che impatto avesse quello che indossiamo. Credo che questo tema sia emerso con decisione negli ultimi 5 anni.
Crede che al giorno d’oggi esista una sottile ipocrisia da parte delle grandi aziende di essere a tutti i costi “green”?
Ci sono numerose indagini che dimostrano che un consumatore è disponibile a pagare di più per un prodotto che viene definito sostenibile. E’ evidente che il marketing non può fare a meno di costruire strategie di comunicazione che cercano di rendere sostenibile anche quello che non lo è. Per fortuna adesso c’è più consapevolezza e c’è una fascia di consumatori che è in grado di evitare di cadere in tranelli.
Mi corregga se sbaglio, ma nel corso degli anni c’è stata una forte speculazione delle fibre sintetiche a scapito di altri tessuti più riciclabili: pregi e difetti di questo andamento?
Le fibre sintetiche hanno cambiato il mondo, ma non da ora. In Italia si coltivavano la canapa e anche il cotone fino agli anni 50. Ma l’arrivo sul mercato delle fibre sintetiche, economiche e facili da produrre, ha spazzato via queste coltivazioni. Oggi il poliestere è la fibra più utilizzata al mondo, anche se proviene dal petrolio e anche se è difficilmente riciclabile. E quando viene riciclato, richiede un grosso dispendio di energia per il processo.
Nel suo TedX sottolinea che ogni anno in media una persona utilizza 26 kg di prodotti tessili. E 11 di questi vengono inceneriti in discarica. Il riciclo è pieno di ostacoli, come mai?
Innanzitutto perché alla base di un processo di riciclo virtuoso, e intendo quello da tessuto a tessuto, è necessario fare una attenta selezione, che richiede manodopera specializzata. Poi perché i nostri abiti non sono progettati per essere riciclati, per questo si parla sempre di più di ecodesign. Il mix di materiali in un solo capo, il numero dei componenti, anche il filo o le colle con i quali sono assemblati, sono ostacoli reali che rendono scarsamente interessante da un punto di vista economico il riciclo delle fibre.
Molti degli abiti in disuso finiscono in Africa, quasi fosse una discarica però... ci si immagina che siano donati alle persone bisognose, ma la realtà è un’altra. Gli stracci, perché arrivano in questo stato sotto forma di balle, diventano un problema che si riversa nell’ambiente. Le organizzazioni come The OR Foundation che compito svolgono?
Un compito importantissimo, perché cercano di sviluppare la circolarità in Africa, oltre a fornire supporto alle comunità locali. In Ghana, dove opera The OR, il commercio degli abiti usati è sostenuto da donne che lavorano tante ore, per pochi spiccioli. The OR ha dato voce a questa realtà, ha fatto in modo che se ne parlasse. Oltre a questo sta anche lavorando per dare la possibilità a una generazione di nuovi designer di impegnarsi nell’upcycling. E’ importantissimo.
C’è poi un sotto mercato: le balle di stracci vengono vendute sperando che lì dentro ci sia qualcosa di utile dalla gente del luogo. Inutile dire che l’Occidente è parte del problema e anche di ricatti dopo la chiusura dell’Africa a questo tipo di importazione... il modello produttivo quindi dimostra la sua inefficacia nell’essere sostenibile, giusto?
Che la vendita di abiti usati in Africa nasconda in alcuni casi la volontà da parte dei Paesi Occidentali di trasferire i propri rifiuti tessili è una ormai una cosa risaputa. Lo sa anche la Commissione Europea, che sta lavorando per evitare l’esportazione dei rifiuti tessili. Questo sia in un’ottica di circolarità, per stimolare il mercato delle materie prime seconde, ma anche per fare in modo che cessi questa invasione di rifiuti mascherata da commercio second-hand.
La sostenibilità della moda è un’utopia lontana? In futuro sarà importante scegliere i giusti materiali, quelli più riciclabili per lo meno? Penso ad esempio ai collant che non possono essere riciclati...
In questo momento nel mondo della moda c’è un gran fermento. Ripensare la produzione in ottica di sostenibile è diventata anche una sfida stimolante e c’è una grade ricerca in questo settore. Sul tema del riciclo ci sono tanti progetti in corso e sono certa che nel giro di qualche mese verranno fuori soluzioni interessanti. E’ anche vero che poi questi processi devono essere condivisi, per poter gestire i grandi numeri di cui abbiamo bisogno.
A Prato, dove vive, c’è il riciclo della lana da molto tempo, ma serve consapevolezza ed esperienza per riconoscere le fibre e cosa è possibile riciclare anche in base al colore. Questo può avvenire anche con le fibre sintetiche?
A Prato il colore si ricicla da sempre. Con le fibre sintetiche c’è chi inizia a fare dei tentativi, c’è chi applica questo concetto anche al colore. Per arrivare al livello di conoscenza di Prato nell’ambito della selezione dei colori, c’è della strada da fare da parte di queste aziende che si stanno affacciando sul mercato, ma con il tempo ci saranno nuove competenze in grado di farlo.
Immagino che possa esserci un problema di costi che porta le aziende ad impiegare materiali per lo più sono sintetici mentre la lana ha un costo maggiore?
Il problema è di qualità. A Prato si producono tessuti riciclati che vengono utilizzati dal settore moda e quindi richiedono un elevato livello qualitativo. Se la componente sintetica è presente oltre una certa percentuale, il risultato sarà una fibra che non è interessante per un utilizzo di questo tipo.
Invece il processo di rigenerazione della lana è sempre lo stesso da centinaia di anni, le fasi sono: la selezione, la preparazione degli abiti, la produzione della fibra, la lana meccanica?
Selezione, preparazione per il riciclo, le fasi industriali di stracciatura e carbonizzazione che ci fa arrivare alla fibra, cioè la lana meccanica
C’è un modo più efficace rispetto ad altri per riciclare i materiali? Tra questi c’è quello chimico, ma immagino che avrà a sua volta un impatto ambientale?
Ci sono diversi tipi di riciclo. Quello meccanico è quello più accessibile, anche da un punto di vista di tecnologie. Quello chimico utilizza molta energia e sostanze chimiche, ma per alcune fibre è l’unica alternativa possibile.
La Commissione Europea ha pubblicato uno studio approfondito sul riciclo tessile, ne parli nell’episodio 47. L’Italia a livello di legislazione com’è messa a riguardo? Oggi si ricicla plastica, carta, vetro, indifferenziata ma il tema dei vestiti?
In Europa la raccolta differenziata dei tessili è obbligatoria dal 2025. In Italia era stato deciso di anticipare questa data al 2022. Di fatto, sono stati posizionati alcuni cassonetti per il recupero dei tessili usati, ma non si è ancora costruita la filiera a livello nazionale che dovrà riciclarli. Quando si parla di tessili, c’è tutto: abiti, tessuti per arredamento, tessile per la casa, biancheria. Quindi è un tema molto complicato nella gestione.
Per il riciclo poi è fondamentale il personale, perché è un lavoro che può essere svolto solo manualmente, vero?
Può essere svolto anche da dei macchinari e si iniziano a vedere sul mercato. Ma se l’obiettivo è quello di riciclare da tessuto a tessuto, da abito nuovo a abito usato, la selezione dei materiali deve essere accurata e può essere fatta solo manualmente.
Nell’episodio 49 ha parlato della Global Fashion Agenda, un’organizzazione internazionale con sede a Copenaghen dove i brand sono chiamati a collaborare su temi specifici per trovare nuove soluzioni. Quali sono i punti più importanti su cui ha riflettuto Federica Marchionni ?
Credo che Global Fashion Agenda si sia presa la briga di mettere insieme brand grandi e piccoli, del fast fashion e del lusso, e aziende che fanno parte dell’industria dell’abbigliamento per cercare di trovare delle soluzioni condivise. L’approccio è globale, non ci sono solo aziende europee al tavolo di Global Fashion Agenda, ma aziende che provengono da tutto il mondo. Federica Marchionni è una donna che conosce bene il settore della moda, ci lavora da tanti anni, e crede molto nella condivisione e nel confronto. Credo che sia una bella dimostrazione di quanto sia importante questo lavoro di coesione anche il panel di ospiti che il 7 e l’8 giugno sono stati presenti al Summit a Copenaghen.
Riuso e riciclo, due facce della stessa medaglia a cui si affianca l’eco-design dei tessili. L’economia circolare può essere un ulteriore tassello da aggiungere a questo tema? Come si svolge nel concreto.
L’economia circolare è l’unico modo di produrre possibile, al quale dobbiamo adeguarci in fretta. Non lo dico io, ma la Commissione Europea, che sta mettendo a disposizione tante risorse per supportare questa transizione. Non si può più immettere un prodotto sul mercato senza averlo progettato pensando al suo fine vita. Io la trovo una sfida incredibile!