Illegale, il podcast di Kento e l'intervista
Pubblicato nel numero di maggio 2023 nella rubrica check podcast su Style Magazine (Corriere della Sera)
Francesco “Kento” Carlo è un rapper e scrittore di Reggio Calabria. Ha un seguitissimo blog sulle pagine del Fatto Quotidiano, dove scrive di musica, cultura, attualità e politica. E’ impegnato in un lavoro di ricerca sul rapporto tra rap e poesia, che lo vede impegnato nella LIPS – Lega Italiana Poetry Slam. Ha lavorato come docente presso istituti penali minorili (Roma, Firenze, Bari, Torino), scuole e comunità di recupero dalle dipendenze, tenendo una serie di laboratori di scrittura e poesia dedicati in particolar modo ai ragazzi a rischio.
Tra gli ultimi suoi lavori: BARRE – Rap, Sogni e Segreti in un Carcere Minorile, suo ultimo libro, edito da minimum fax. E’ stato anche speaker per TedX Milano, sul tema dell’efficacia terapeutica del rap e della scrittura in generale. Nel 2022 collabora con l’associazione Antigone per la serie “Keep It Trill”, dedicata al ruolo della musica nel mondo della detenzione minorile in Italia e, sullo stesso tema, scrive e dirige la serie “Barre Aperte”, trasmessa in 8 puntate su Repubblica TV.
INTERVISTA COMPLETA
Nel podcast ti soffermi su 6 città e ti addentri in ben 3 zone/quartieri di ognuna di queste per scoprirli e raccontarli. Come hai scelto questi luoghi? Li conoscevi già per tue precedenti esperienze personali/musicali o di scrittura oppure hai chiesto a qualche conoscente di cui ti fidi? O magari il metodo old school: hai effettuato ricerche tra libri e riviste e il web e con questi approfondimenti hai capito dove andare?
La risposta è assolutamente la prima: tutti i luoghi di cui parlo sono luoghi che ho vissuto di persona, di cui ho fatto esperienza e dei quali mi porto dietro qualcosa, così come tutte le persone di cui parlo hanno condiviso con me un abbraccio, un palco… a volte anche semplicemente un caffè o una birretta. È l’esperienza che ha creato il podcast, e non viceversa. Un giorno mi sono reso conto che, nel corso degli anni, avevo accumulato una serie di storie e di aneddoti su tantissime città, e molti di essi erano legati a posti e situazioni nascosti, o comunque non accessibili al grande pubblico.
Il che, messo così, fa un buono spunto di conversazione ma niente di più: il passaggio ulteriore e più importante è arrivato quando mi sono reso conto che dalle curiosità veniva fuori un quadro unico, un disegno di un’Italia diversa ma incredibilmente viva e interessante, che merita di essere raccontata e ascoltata. Controcultura al giorno d’oggi sembra una parolaccia, ma è una parolaccia che voglio continuare a pronunciare ad alta voce.
Sei legato a doppio filo al mondo della parola scritta e cantata, rap e hip hop. Proprio quest’ultimo nasceva prima di tutto come movimento culturale poi musicale e proprio in un quartiere americano molto complicato: il Bronx. Che negli anni Settanta non era di certo un posto rinomato in cui vivere. È il caso di dire che dalle “difficoltà” di un luogo ne è uscito qualcosa di buono e audace e innovativo. Su questa linea di pensiero si muove anche il tuo podcast?
In un certo senso sì. Negli ultimi decenni, non c’è praticamente nessun movimento culturale o artistico di un certo rilievo che non sia nato dalla strada, dagli ambienti alternativi o antagonisti. Pensa al beat e al punk prima ancora che al rap e alla cultura Hip-Hop. Poi, certo, il mercato fagocita e distorce quasi tutto, ma secondo me al giorno d’oggi non è possibile che qualcosa cali dall’alto, dalle élite economiche e sociali, e arrivi in strada, mentre è abbastanza comune il contrario.
E, nonostante tutte le indubbie storture, il rap mantiene ancora forte l’impronta di strada e questo è il punto che lo salva e che lo mantiene ancora vitale e capace di auto-rigenerarsi. Non a caso si dice che l’Hip-Hop abbia creato “qualcosa dal nulla”: se ci pensi, tutte e quattro le sue tradizionali discipline – e cioè il rap, lo scratch del dj, la breakdance e i graffiti – sono re-invenzioni molto innovative del canto, della musica/suono, del ballo e dell’arte visiva. Mantenere un approccio non convenzionale alla scrittura e alla creatività in generale è un insegnamento imprescindibile, che provo a portarmi sempre dietro.
(Foto Credits Serena Dattilo)
Illegale ha una connotazione negativa, ma è davvero così? Ci sono più sfaccettature e declinazioni… tu a cosa la associ?
Generazioni di filosofi hanno speso fiumi di inchiostro sulla differenza tra le definizioni di illegale e illegittimo, dove (facendo una cruda e approssimativa sintesi) “illegale” andrebbe a significare “contrario alla legge” e “illegittimo” varrebbe “contrario ai principi”. Quindi, il fatto che un’organizzazione o un comportamento sia illegale non lo rende automaticamente illegittimo. Ed ecco perché guardiamo con ammirazione e rispetto a tanti movimenti sociali e politici che, nei secoli, si sono mossi consapevolmente al di fuori della legalità nel nome di determinati obiettivi o principi sociali. Per esempio, partendo dalle cose più vicine a noi, anche i ragazzi che occupano una scuola per chiedere il riconoscimento di diritti (o semplicemente di avere attenzione su determinati temi, di essere ascoltati!) compiono un gesto illegale.
E, purtroppo, che sia illegale lo sanno benissimo anche gli stessi ragazzi e le loro famiglie, che in questi mesi si sono visti recapitare delle denunce penali a causa delle occupazioni. Il che è ineccepibile dal punto di vista strettamente legale e giuridico ma secondo me aberrante dal punto di vista sociale: prima diciamo ai ragazzi che devono essere protagonisti della scuola invece di stare sempre attaccati agli smartphone e poi, quando lo fanno, li stanghiamo col manganello della denuncia perché non ci piace quello che dicono? Mi sembra un gesto ipocrita, un fare il forte coi deboli.
Per come la vedo io, occupare una scuola o un’università o un luogo di lavoro per far sentire la propria voce è un gesto sicuramente illegale, ma allo stesso tempo legittimo.
Se dovessi dirmi a mente “fredda”, senza rifletterci troppo, in quale puntata (o più di una) se c’è stato un incontro con qualcuno o un momento o anche una semplice frase che ti ha - se non cambiato-, almeno destabilizzato e fatto riflettere al punto di cambiare la tua prospettiva, cosa mi diresti?
Da reggino, sicuramente gli episodi che mi hanno più segnato si collocano nel profondo Sud. Nel 2009, a Villa San Giovanni, ci doveva essere un mio concerto alla conclusione di una manifestazione contro il ponte sullo Stretto. Non si tenne mai perché qualche minuto prima, su quello stesso palco, uno dei relatori, il coraggioso e appassionato sindacalista Franco Nisticò, ebbe un malore e perse la vita: era presente un imponente schieramento di forze dell’ordine in tenuta anti sommossa, con blindati e camionette… ma nemmeno un’ambulanza!
Le ultime parole di Nisticò prima di accasciarsi furono un severo e profetico richiamo all’unità tra vecchi e giovani e a un meridionalismo aperto e contemporaneo, di cui in questi tempi di frontiere esasperate sento enorme bisogno. Di quella giornata mi porto dietro la tristezza, i dubbi mai risolti sui ritardi dei soccorsi, e la certezza che adesso tocca alla nostra generazione portare avanti la lotta ma anche la riflessione e il dialogo.
Dalla ricerca per il podcast Illegale, hai capito quanto e come un luogo può influenzare il lavoro di un artista? C’è qualche esempio che ti è rimasto impresso?
È impossibile non pensare ad Aladin Hussain Al-Baraduni, il pittore yemenita che è dovuto fuggire dal suo paese perché sulla sua testa pende una condanna a morte lanciata dalle autorità integraliste, e il suo crimine è stato appunto quello di denunciare con pennelli e colori l’integralismo religioso e l’ingiustizia sociale. Oggi Aladin si è rifugiato a Roma, ed è possibile trovare le sue opere a BAM, la Biblioteca Abusiva Metropolitana di Centocelle.
Ovviamente è uno dei luoghi di cui parlo nel podcast, un avamposto in cui letteratura e arte visiva si ispirano e influenzano l’un l’altra. Visitarlo e scoprire i suoi segreti è un’esperienza impagabile, una testimonianza di come la creatività tracimi nella vita in maniera vigorosa e inarrestabile.
A proposito, il file rouge del podcast é la “controcultura”… nel 2023 cosa alimenta il concetto di controcultura? Perché tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta c’era davvero un “sistema contro il sistema” penso tra i tanti fenomeni culturali quello della Club Culture inglese e i Rave che hanno smosso pure la Tatcher con i provvedimenti anti rave (tornati però anche da poco qui da noi come uno spauracchio). Oggi, nel viaggio di questo podcast, cosa pensi sia ancora affine a quello spirito? Oppure dobbiamo ricalibrare il concetto di controcultura? Cosa fa controcultura oggi insomma?
La risposta più semplice è che è sempre la strada ad alimentare la controcultura, ed è ciò che ti dicevo anche prima. Ma, più in generale, qualsiasi forma di espressione che si ponga come alternativa al pensiero unico diventa, in quest’epoca storica, incredibilmente interessante e importante. E anche il tuo lavoro, quello del giornalista che si occupa di musica e arte, non sfugge a questa responsabilità: se parlo di rap soltanto in connessione alla criminalità, se dipingo i luoghi autogestiti come semplici cenacoli di sovversivi… magari ne guadagno in sintesi o in lettori e like, ma davvero sto facendo un buon servizio al mio lettore e all’informazione in generale?
Io penso che il buon giornalismo sia una porta aperta alla controcultura, non perché deve per forza suggerire una visione diversa o opposta rispetto a quella più diffusa, ma perché da al lettore gli strumenti e gli stimoli per crearsi la propria opinione, la propria visione. E, pur non essendo un giornalista, è questo l’obiettivo che mi sono posto con Illegale: dare strumenti e stimoli per riflettere e per farsi un’idea propria.
Sei di Reggio Calabria ma vivi a Roma… se parlo di centri sociali cado nell’ovvietà oppure sono stati o forse lo sono ancora oggi un luogo perfetto in cui scambiarsi idee di ogni tipo e forse mantenere una visione più ampia della società in cui viviamo e di cosa è arte a 360 gradi?
I centri sociali sono luoghi complessi, luoghi di conflitto, luoghi spesso pieni di difetti e contraddizioni, sui quali si è scritto molto nel bene e nel male. Grazie alla musica, io ho la possibilità di avere un accesso privilegiato a questi ambienti, di capire come funzionano, e probabilmente ne ho una visione d’insieme che non molti hanno. Quindi, pur non tacendone assolutamente gli aspetti controversi, mi posso permettere di raccontarne anche lo straordinario slancio creativo.
Tu scrivi di musica da molti anni: potresti dire che il punk, il rock, il rap italiano sarebbero gli stessi se non fossero esistiti il Leoncavallo, il Forte Prenestino e Officina 99? Non credo! E quante storie, quante avventure incredibili, quanti crossover di percorsi e suoni si sono creati dietro quelle mura? Io mi sono preso il compito arduo ma divertentissimo di raccontarne una parte…
Parlando di luoghi, nel podcast ti ritrovi nel carcere minorile di Casal del Marmo… non sei nuovo a questo tipo di esperienza per via dei laboratori rap che tieni proprio nelle carceri minorili. In Italia ci sono 17 istituti penali minorili, se non erro. Qual è la situazione che c’è oggi, il clime all’interno di queste strutture?
Purtroppo non posso darti una risposta univoca. La vera differenza nelle carceri minorili non la fanno i luoghi e certamente non la fanno i ragazzi detenuti: la fanno gli adulti che ci lavorano a vario titolo, e avere dei professionisti motivati, pronti a metterci il cuore oltre che la professionalità ha un impatto enorme su chi sta dentro le celle. Ti vorrei proporre un esperimento: pensa a quell’insegnante che ti ha fatto appassionare di una materia quando eri a scuola, che ha svegliato in te la voglia di sapere e di conoscere.
Ecco, ora pensa di essere un giovane recluso, e che quell’insegnante sia la direttrice o l’educatore o un agente di polizia penitenziaria. Quanto può cambiarti la vita in positivo? Ma facciamo anche l’esperimento opposto: pensa all’insegnante che una materia te l’ha fatta odiare al punto che, quando aveva lezione, tu non volevi uscire dal letto. E di nuovo: sei un giovane detenuto, e quell’insegnante è l’agente o l’educatore che ti segue ogni giorno. Come ti senti adesso?
Dal tuo punto di vista: quindi la parola e le canzoni cosa danno a questi ragazzi? Ti scrivono anche dopo, resti in contatto con loro?
Mi scrivono in molti, qualcuno mi manda le foto dei figli, con qualcun altro mi è capitato addirittura di condividere il palco. La musica e la parola gli danno qualcosa di grande, che è l’essere – per una volta – dalla parte della capsula del microfono, e cioè dalla parte di coloro che “dicono” e non di coloro ai quali “viene detto”. Sono ragazzi che, per 16 ore al giorno, si sentono dare ordini, consigli, indicazioni… ma non sempre hanno la possibilità di dire la loro, e quasi mai quella di essere ascoltati.
Per cui è anche difficile fargli fare questo passo, dirgli che non solo meritano la parola, ma ne hanno perfino il diritto! Una volta che sono riuscito a scardinare questo blocco, vengono fuori dei contenuti incredibili.
Mi collego alla domanda precedente: ci sono emozioni, frasi, parole, temi che emergono e uniscono tutti questi ragazzi che incontri? C’è un minimo comun denominatore che è lì, che viene fuori con il rap e le canzoni e che magari non emergerebbe in altro modo?
La cosa che mi fa sempre impressione è vedere ragazzi che si nascondono dietro la corazza del duro, del criminale a tutti i costi, gli stessi che magari hanno fatto scena muta davanti al giudice che li ha rinchiusi per anni e anni… che poi, con una penna in mano, tirano fuori un universo profondo di riflessioni, di tristezza, di malinconia. Se gli chiedi cosa vogliono, cosa desiderano per il loro futuro adulto, la maggior parte di loro se ne esce con una risposta così semplice da sembrare quasi banale: sognano la famiglia del Mulino Bianco, in cui stanno insieme alla donna che amano, hanno un buon lavoro e sono dei buoni genitori.
Farebbe quasi sorridere… se non fosse troppo facile vedere in controluce ciò che molto spesso è mancato alla loro infanzia, e allora ne capisci l’amarezza e la solitudine! Impossibile visitare un carcere minorile senza uscirne con più domande e dubbi che risposte e certezze.
Nel podcast parli anche dell’esperienza del teatro Puntozero a Milano mentre a Napoli del’ex OPG - Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Il rifiuto delle convenzioni sociali può portare a conseguenze pericolose dovute a scelte sbagliate, che però potrebbero essere spinte anche dall’ambiente circostante… elucubrazioni a parte, cosa ti hanno dato questi episodi?
Le scelte sbagliate sono scelte sbagliate, e i ragazzi detenuti sono lì dentro perché hanno commesso dei reati. Questa cosa la premetto sempre, altrimenti sembrerebbe che io viva su un altro pianeta. Dall’altro lato, tornando alle definizioni dei filosofi e dei giuristi, “colpa” presuppone una scelta: Eva che sceglie di disobbedire all’Altissimo e mangia il frutto proibito, e così via. Io ho di fronte a me il bene e il male, scelgo il male.
Ma da ciò deriva che, se non c’è una scelta, non ci può essere nemmeno una colpa, giusto? E se ho 15 anni, mia madre spaccia, mio papà è all’ergastolo e mio zio fa le rapine… ho davvero una scelta? Ci sono ragazzi ai quali, in carcere, si è dovuto insegnare perfino a lavarsi, perché avevano vissuto sempre in strada e non sapevano come ci si fa una doccia. Per loro, il reato quant’è una “scelta”? E quindi: quanto sono colpevoli?