L'Antropocene approfondito nel podcast in collaborazione con il Muse di Trento
Un podcast divulgativo con la voce di Matteo Caccia. Ne abbiamo parlato con Massimo Bernardi, il Direttore Ufficio Ricerca e Collezioni MUSE – Museo delle Scienze di Trento
Intervista a Massimo Berardi - Direttore Ufficio Ricerca e Collezioni MUSE – Museo delle Scienze di Trento
Matteo Caccia, insieme al gruppo di Radio24, ha intervistato sociologi, economisti, agronomi, storici, filosofi. Una pluralità di voci per una pluralità di punti di vista sulla complessità dell’Antropocene.
Il MUSE a Trento è un museo particolare, si occupa di scienza e tecnologia, con un’attenzione particolare al rapporto tra uomo e natura. Questo significa studiare l’era geologica dell’uomo che Paul Jozef Crutzen, Premio Nobel per la chimica nel 1995, ha definito come Antropocene. Crede che lo stesso museo possa essere un “marker” del passaggio dell’uomo?
Il dibattito sulle evidenze fisiche dell’Antropocene comprende anche un’accesa discussione sulla data d’inizio di questa nuova epoca geologia. Quali tracce marcano, rimanendo impresse nei sedimenti marini, lacustri, nei ghiacci o nei depositi di grotta, la base dell’epoca dell’umanità? Ovvero: quali sono le prime evidenze a scala planetaria dell’impatto della nostra specie e a quando risalgono? Sono state proposte evidenze fisiche, “marker”, diversi quanto la concentrazione di CO2 in atmosfera, la presenza di plastiche o di elementi radioattivi. È un dibattito interessante perché, in sostanza, ci stiamo chiedendo quale sia il nostro biglietto da visita nella storia del Pianeta. Per cosa saremo ricordati per sempre nella storia geologica, quella dei milioni di anni, raccontata dalle rocce? Nell’estendere la rilevanza sociale di questo dibattito, tuttavia, possiamo prendere in considerazione altri possibili marker, tracce della rapida transizione non solo nei sistemi bio-fisici ma anche socio-culturali che caratterizzano l’Antropocene.
Il triennio 2019-2021, ad esempio, sarà ricordato come la più importante fase di presa di coscienza a scala internazionale dell’urgenza di comprendere e intervenire sulle dinamiche antropoceniche più deleterie in atto. Penso ai movimenti di piazza che hanno portato il vecchio ambientalismo a un nuovo livello di rilevanza. In questa fase rivoluzionaria le istanze ambientaliste, antirazziste e di giustizia sociale in genere divengono di massa, lasciano il segno. Questo potrebbe essere considerato un momento cruciale, un marker, dell’Antropocene percepito, consapevole. Il momento in cui per la prima volta nella storia della vita una specie diviene cosciente di una transizione di portata geologica in atto, da essa stessa generata e agisce per modificare il corso della storia. Un marker culturale che peraltro – se avrà l’auspicato impatto sui sistemi eco-socio-culturali del pianeta – si tradurrà presto in evidenze anche fisiche di magnitudine geologica. Anche le nostre attività al MUSE sono in questo senso evidenza della traccia impressa dal dibattito sull’Antropocene nell’evoluzione della vita.
Crutzen descrive in sostanza il passaggio dall’Olocene; qual è stato - per così dire-, quel momento in cui si è capito sul serio di questo cambiamento?
La filologia del termine Antropocene rimanda, come sovente riportato, ad un primo scritto ufficiale nella Global Change Newsletter dell’anno 2000 in cui il chimico Paul J. Crutzen e il biologo Eugene F. Stoermer contrapposero il neologismo all’epiteto ufficiale designato ad indicare l’intervallo di tempo geologico che comprende il presente: Olocene, gli ultimi 11.700 anni. L’idea tuttavia non era nuova. Stoermer utilizzava lo stesso sostantivo dagli anni ’80 del secolo scorso, e da almeno un paio di secoli i geologi scrivevano di un’epoca dominata dall’impronta umana per riferirsi agli strati più superficiali della struttura interna della Terra. Tra questi anche il geologo lombardo Antonio Stoppani, che nel 1873 utilizza peraltro un termine molto simile: Antropozoico.
Il fenomeno cui si riferivano questi precursori era, in buona sostanza, era lo stesso: il pervasivo e ingente impatto delle azioni umane sui cicli biogeochimici del pianeta. Un impatto così intenso da lasciare traccia duratura, geologica, sul pianeta. Una traccia inedita, originale, tale da poter essere identificata come discontinua rispetto a quella dell’epoca precedente, l’Olocene. Per i geologi le evidenze sono lampanti: quanto sta succedendo negli strati superficiali della crosta terrestre, quelli in cui lasciamo le nostre tracce, è incomparabile a qualsiasi forma o composizione osservabile negli strati rocciosi più profondi, quelli formatisi prima della comparsa dell’umanità.
C’è qualcosa che l’ha colpita del punto di vista di Crutzen o con cui non si sente perfettamente in “linea”?
Cruzen ha avuto un’intuizione geniale. Da decenni i naturalisti e la scienza in generale dibatteva dell’eccezionalità dell’azione umana nella storia della vita e parallelamente tra le discipline umanistiche ci si arrovellava su come definire l’epoca straordinaria che stiamo vivendo, penso ad esempio ad espressioni quali “modernità liquida”. I due nuclei di dibattito erano tuttavia inopportunamente distanti. Cruzen spariglia il campo: Antropocene è la convergenza tra storia del pianeta e storia umana.
Il dibattito si fonde e genera quel campo di discussione urgente e partecipato che è oggi l’Antropocene. Un dibattito in cui si mette in discussione da subito un aspetto fondamentale: non può essere un anthropos globale, un’umanità generica al centro della riflessione perché l’Antropocene non è imparziale. Non esiste un’umanità responsabile della crisi climatica, ecologica, sociale, culturale che stiamo vivendo ma specifiche culture, società, modelli produttivi, economie.
Questa politicizzazione dell’Antropocene non era presente nelle prime formulazioni di Cruzen ma è divenuta caratteristica fondamentale del dibattito in corso. Continuiamo insomma ad utilizzare il termine Antropocene come temine ombrello, oramai (per fortuna) sempre più popolare, anche se pochi di noi digeriscono di buon grado quel prefisso così inopportuno.
Non ho avuto modo di visitare il Muse, ma la struttura - se ho ben capito-, è composta da 6 piani, immersa tra boschi e foreste di alta quota, a vista pareti verticali rocciose, fondovalle. È questo il contesto? C'è un motivo specifico per cui è nato a Trento?
Il MUSE è la rielaborazione moderna di un’istituzione che quest’anno compie un secolo di storia. Come in molte altre città italiane il vecchio museo civico, poi divenuto provinciale, è nel tempo cresciuto, ha saputo allontanare da sé l’aura polverosa di un archivio di memorie iniziando a ragionare sempre più sul presente e sulle sfide future senza perdere di vista la propria storia, il proprio compito istituzionale. E senza dimenticare il luogo specifico in cui si trova, il territorio peculiare in cui svolgiamo le nostre ricerche: l’ambiente montano. Ecco, dunque, che nel pensare ad una nuova esposizione permanente abbiamo deciso di sviluppare tutta la narrazione attorno ad una metafora altitudinale: vistando le sale il visitatore segue il fluire di una goccia d’acqua che partendo da un ghiacciaio d’alta quota scende lungo i versanti di una montagna per giungere nel fondovalle. Una storia di territori, biodiversità e interazioni umane. Insomma, una storia di natura.
Ogni piano del Muse affronta e studia qualcosa di specifico? Sempre legato all’era dell’Antropocene in diverse declinazioni? Può farmi in caso qualche esempio anche di quello che si trova esposto?
Nella vasta gamma di temi che avremmo potuto scegliere abbiamo dato maggiore visibilità agli argomenti dei quali siamo più competenti grazie alle ricerche scientifiche che svolgiamo sul territorio e sugli oltre 5 milioni di reperti che conserviamo nelle nostre collezioni. Al piano più alto, ad esempio, non solo mostriamo forme e caratteristiche dei ghiacciai, ma raccontiamo come li studiamo e perché ciò abbia senso.
Accanto ad un ghiacciaio, riprodotto con ghiaccio vero, si trovano dunque gli strumenti di lavoro, le elaborazioni visuali dei dati tramite essi generati, e un video in cui il nostro collega glaciologo che racconta direttamente dal campo come anche un museo può contribuire a conoscere, preservare e valorizzare il territorio che lo circonda.
Nel podcast cita la plastica, una specie di “marker”, e al Museo ci sono 4 blocchi, conglomerati, pezzi diversi messi assiemi: plastigomerati. Questi sono i fossili della nostra attività umana che sarà studiata in futuro? Ce ne sono altri di questi marker?
I plastiglomerati sono evidenza fisica della convergenza tra storia umana e storia del pianeta. Lave o sabbie fuse che inglobano reti da pescatori e altri oggetti in plastica. Sono i fossili del presente che i miei colleghi paleontologi del futuro troveranno tra qualche centinaio di migliaia di anni, un po' come noi oggi troviamo una conchiglia dentro ad una roccia calcarea. Se le nostre tracce finiscono in ambienti adatti alla fossilizzazione, alla preservazione nei sedimenti, potranno trasformarsi in marker. Li chiamiamo tecnofossili: un cellulare, uno pneumatico ma anche una ciabatta possono trasformarsi in evidenze indelebili della nostra comparsa nella storia della vita di questo pianeta.
Com’è nata l’idea di questa serie audio di divulgazione?
Il MUSE è sempre più multi-canale. Invitiamo alla partecipazione il nostro pubblico con mostre e attività educative, come da tradizione, ma anche con eventi creativi, produzione di video, co- organizzazione di festival. Ricerca formale, divulgazione informale, come amiamo dire. Di questo desiderio di esprimerci con linguaggi diversi fa parte anche il podcast Tracce, che si aggiunge ad altri, prodotti dal nostro museo. Il tema invece, come spero emerga dalle puntate, è il primo e più rilevante cui abbiamo pensato. Un dialogo informato, aperto e accessibile sulla grande trasformazione eco-culturale che stiamo vivendo è la più urgente sfida anche comunicativa posta ai musei e più in generale a tutti coloro i quali si occupano di cultura.
Tornando all’Antropocene, ad un certo punto è stato necessario fissare una data, e per convenzione ci si è accordati con il periodo legato dalla metà del 1900 in poi, come mai il 1950 e non la fine dell’800 inizio del ‘900 con la rivoluzione industriale?
Per un motivo pragmatico, operativo. Per definire una data d’inizio ai geologi serve un marker, un’evidenza fisica, distribuita su tutto il globo, facilmente identificabile e sincrona, ovvero che “segni lo stesso momento” ovunque la si misuri. Il cosiddetto fallout radioattivo, ovvero la “pioggia” di elementi generati dall’esplosione delle testate nucleari, è ricaduto nello stesso momento su tutto il globo, essendosi diffuso rapidamente in atmosfera. Un geologo del futuro non avrà dubbi: una traccia chiara ed indelebile. Manca tuttavia la formalizzazione di questa data, che ci si attende entro l’anno in corso.
I geologi del futuro da cosa rimaranno stupefatti studiando questi anni in cui stiamo vivendo? A suo avviso sarà un “giudizio” negativo o positivo?
Domanda assai complessa. Risponderò tuttavia molto brevemente: delle meraviglie costruite dall’umanità non rimarrà molto nel registro geologico. La Cappella Sistina o il Partenone diverranno polvere in tempi geologici rapidissimi. Ci vorranno paleontologi assai astuti per ricondurre quelle tracce alla cultura creativa che le ha generate.
Possiamo contare un po' di più sui paesaggi, pensiamo ai nostri paesaggi agrari, ad esempio, perché sono vasti e ingenti, ma che tuttavia hanno scarse probabilità di rimanere preservati in forma fossile. E dunque torniamo agli oggetti, e i manufatti che perdurano nel tempo quasi mai colgono il meglio di noi.
Pensando a Chernobyl, guardando la città disabitata, si nota che la natura ha ripreso il sopravvento. L’uomo forse è solo di passaggio se pensiamo ad una visione più ampia?
È certamente così. In gioco, nella crisi dell’Antropocene, non è infatti la sopravvivenza della natura o del pianeta, ma la nostra o, per meglio dire, del mondo per come lo conosciamo. Siamo ciò che siamo per le relazioni che intratteniamo con l’altro da noi. Ci siamo evoluti in questo modo in virtù delle interazioni con altre specie, climi mutevoli, ambienti complessi.
La rapida trasformazione dell’Antropocene rischia di mettere in crisi, ben prima della nostra scomparsa, le relazioni che ci definiscono, che significa rischiare di ritrovarsi vivi ma alieni in un mondo che non riconosciamo più come casa.
Le sei puntate del podcast diventano una descrizione e un approfondimento per definire l’Antropocene, possiamo definirla come una macrocategoria che comprende declinazioni a seconda dei periodi e che descrivono la modernità dell’umanità?
Proprio a partire dalla critica al termine e al concetto superficiale di Antropocene che citavamo prima abbiamo deciso di fare un passo oltre. Raccontare l’Antropocene secondo diversi punti di vista. Articolare la narrazione a ricomprendere le dinamiche sociali, economiche, filosofiche. Non abbiamo la pretesa di aver coperto esaustivamente il vastissimo campo di discussione sul tema, ma di aver aperto sei finestre su un dibattito che riguarda tutti, non solo gli “appassionati di natura”.
Nel podcast, dopo la prima puntata sull’Antropocene, si passa alla seconda con eremocene, la terza capitolacene, la quarta wastocene (l’epoca degli scarti), la quinta urbanocene e la sesta plantationocene. Quali caratteristiche si legano l’una all’altra?
Il MUSE è un museo delle scienze nel quale lavorano principalmente naturalisti: biologi, zoologi, botanici, geologi, archeologi. Non essendo tuttavia possibile discutere di Antropocene da un solo punto di vista, nel podcast siamo andati molto oltre le nostre competenze. E per farlo, grazie a Matteo Caccia e tutto il gruppo di Radio24, abbiamo intervistato sociologi, economisti, agronomi, storici, filosofi. Pluralità di voci per una pluralità di punti di vista sulla complessità dell’Antropocene.
Ricollegandomi ai marker negativi l’uomo è parte di questa sesta estinzione di massa a causa delle sue azioni che caratterizzano in qualche modo l’antropocene alterandone gli habitat. L’uomo Sapiens dovrebbe “controllarsi”? O è un processo naturale per come l’uomo ha sempre vissuto sulla Terra?
La sesta estinzione di massa alla quale ci stiamo pericolosamente avvicinando mostra notevoli similitudini con le grandi crisi di biodiversità del passato. Ciò ci preoccupa molto. L’acidificazione degli oceani, la diminuzione sensibile nella concentrazione di ossigeno nei mari, il rapido aumento della CO2 in atmosfera, il rilascio di metano dal permafrost o dai fondali oceanici sono fenomeni che hanno trascinato la vita nel baratro nelle cinque fasi di crisi di biodiversità più drammatiche degli ultimi 500 milioni di anni (e per questo chiamiamo “sesta” l’estinzione dell’Antropocene). Tuttavia, per la prima volta (almeno per quanto ne sappiamo) un’estinzione di massa vede protagonista una specie cosciente. I dinosauri non si sono resi conto di quanto stesse accadendo durante l’estinzione di massa che li ha decimati. Noi sì. E sappiamo anche di essere il meteorite di questa nuova crisi. Ma non credo “controllarsi” sia ciò che ci salverà. Evolvere la cultura del limite è certamente un passo fondamentale, ma credo sia parimenti urgente dare spazio alle tante iniziative che stanno già oggi creando un nuovo Antropocene e che stanno dando a questa epoca segnata da “tracce negative” come le definivi prima, l’occasione di essere ricordata anche per aver messo in luce la potenza creativa dell’evoluzione che ha generato una specie che si è messa in pericolo ma che è anche stata in grado di rendersene conto e cambiare rotta. E per cambiare rotta non abbiamo bisogno di qualche intervento prometeico: nuove tecnologie, soluzioni rivoluzionarie, ma di ascoltare chi sta portando il futuro nel presente. Chi agisce il cambiamento, chi costruisce comunità, chi ripara, chi cura.
L’uomo fa parte di questa sesta estinzione di massa, le nostre azioni che caratterizzano in qualche modo l’Antropocene alterandone gli habitat. Come si è arrivati a questo punto secondo lei ed è meglio trovare una soluzione? Potrebbe esistere l’Antropocene senza nessuna azione concreta dell’uomo?
No. L’Antropocene parla di noi e ci mette difronte alla nostra potenza, che ora sappiamo essere di portata geologica. Miliardi di persone che spingono congiuntamente in una direzione possono spostare un pianeta. E a noi basta spostare la direzione dell’Antropocene. Una cosa decisamente alla nostra portata. Dovremmo darci seriamente un’opportunità.