Sailor, il podcast che racconta i protagonisti della moda attraverso l'anatomia del corpo. Intervista a Chiara Tagliaferri e Maria Luisa Frisa
Pubblicato nel numero di settembre nella rubrica check podcast su Style Magazine (Corriere della Sera) in edicola dal 30 agosto.
Il Podcast Sailor è prodotto da Storielibere.fm e sarà disponibile a partire dal 20 settembre sia sul sito sia su tutte le piattaforme di streaming dedicate ai podcast.
Maria Luisa Frisa e Chiara Tagliaferri sono fotografate da Alan Chies nella galleria kaufmannrepetto di Milano. Alle spalle il lavoro di Andrea Bowers (Political Ribbons2022, silkscreen inkon satin ribbons,site specific installation, variable dimensions 1000 ribbonsCourtesy of the artist and kaufmannrepetto Milano / New York).
INTERVISTA COMPLETA
Come ha preso forma l’idea alla base del podcast Sailor? C’è stato qualcosa che vi ha spinto in una precisa direzione? Magari qualche spunto è nato da film o libri o dall’assenza di qualcosa da riempire?
MLF: Sailor nasce dal desiderio di trovare un modo coinvolgente e insieme preciso per raccontare la moda italiana. Il mio impegno da diversi anni è dedicato alla valorizzazione della moda del nostro paese.
La possibilità di fare un podcast mi era stata proposta più volte, ma senza Chiara Tagliaferri non sarebbe stato possibile.
CT: C’è sempre un libro e c’è sempre un film, per quanto mi riguarda. Si chiama Sailor il ragazzo che, in Cuore Selvaggio di Barry Gifford (da cui David Lynch ha tratto un film strepitoso), prende a pugni un mondo bislacco e crudele credendo solo nel suo amore per Lula e nella sua giacca di pelle di serpente, per lui “simbolo della mia individualità e la mia fede nella libertà personale”.
Ma Sailor è anche Sailor Moon: una ragazzina goffa che, grazie al potere del cristallo di Luna, si trasforma nella guerriera dell'amore e della giustizia. E poi ci sono i marinai dalla t-shirt a righe, quella codificata da Coco Chanel che diventa stile nella libertà di indossare ciò che ci piace, e che Jean Paul Gaultier trasforma in codice ambiguo della mascolinità ispirandosi a Querelle de Brest. “Non sono altro che desiderio” dice Franco Nero nel film, perdendosi nei bassifondi di quella voluttà.
Come siete entrate in contatto l’un l’altra e cosa vi accomuna?
MLF: Ricordo bene quando Chiara mi ha cercato per intervenire, in dialogo con Murgia, in coda a un episodio di Morgana. Mi sono sentita onorata. Allora la conoscevo solo attraverso il suo lavoro. Ci siamo piaciute tramite le nostre voci. Poi ho invitato lei e Michela Murgia a presentare all’università Iuav a Venezia, il secondo libro dal podcast Morgana. A ottobre dell’anno scorso abbiamo fatto una bellissima conversazione a Palazzo Grassi partendo dai nostri libri Strega comanda colore e Le Forme della moda. Ci siamo sempre ripromesse di fare qualcosa insieme proprio per il nostro interesse per la moda, ma soprattutto per il modo diverso che abbiamo di sperimentarla e di parlarne. E così arriviamo al podcast.
CT: E il podcast è nato dalle nostre parole che si sono intrecciate nei mesi fra lunghissime corrispondenze, telefonate (purtroppo viviamo lontane), e doni. Certe mattine mi portano i libri e le riviste che Maria Luisa mi spedisce, e ogni volta è una sorpresa: sa leggere il desiderio che nutro per questo mondo, regalandomi le coordinate per scendere in quella profondità capace di restituirmi il senso di una meravigliosa leggerezza.
Da quante puntate sarà formato il podcast e come saranno suddivise le tematiche prese in considerazione?
CT: La prima stagione è composta da otto episodi. Maria Luisa ed io abbiamo costruito una geografia del corpo: ogni puntata parte infatti da un organo o un arto strettamente intrecciato alla poetica delle direttrici e dei direttori creativi che abbiamo incontrato e intervistato, e che diventa volano di rimandi per esplorare il loro lavoro, le loro ossessioni. Per esempio, nel nostro atlante anatomico, il cuore corrisponde ad Alessandro Michele.
Lo scrittore James Ellroy dice che tutta la letteratura, e dunque la vita, si basano su due principi: possibilità dell’amore e inevitabilità della morte, e noi viviamo sospesi tra questa opportunità e questa certezza, tenute insieme dal nostro cuore che batte fortissimo o che smette, improvvisamente, di battere. Il cuore è l’elemento messianico che meglio rappresenta tutto il lavoro di Alessandro Michele perché riesce sempre a mettere al centro delle sue creazioni il desiderio.
La copertina del podcast Sailor è di Elisa Seitzinger.
A quale episodio o episodi siete più affezionate e perché?
MLF Ogni episodio ha un senso molto preciso nell’architettura del nostro progetto. Non volevano le tante storie della moda che spesso diventano storielle, volevamo attraverso le parole dei direttori creativi e delle direttrici creative mettere gli ascoltatori in contatto con quella complessità che è la moda oggi.
Inoltre abbiamo pensato che attraverso le diverse poetiche si potessero svolgere dei temi che potevano essere rappresentativi di modi di lavorare e allo stesso tempo restituzione di come il sistema della moda si sia trasformato molto velocemente nella struttura creativa ed economica, nei confini, nei protagonisti e comprimari. Come siano entrate in uso nuove parole, nuovi concetti e si sia consolidata in ciascuno una nuova consapevolezza culturale, politica e sociale.
Come vi siete documentate e suddivise il lavoro di ricerca? Vi siete per caso date delle linee guida da seguire?
MLF Siamo molto diverse e per questo complementari. Abbiamo due approcci diversi alla scrittura e nel modo di esprimerci con la voce. Questo secondo me ha reso interessante il risultato, e ha reso inutile suddividere il lavoro di ricerca. Nel preparare le domande per fare un esempio: comincia una e le finisce l’altra o viceversa. Diciamo che è una conversazione continua che rispetta e integra la singolarità dell’altra.
CT: “Se ci mettiamo in strada, da qualche parte arriveremo” dice Dorothy ne “Il mago di Oz”, e io mi diverto a camminare a ritroso nel tempo, scandagliando infanzie, perché è lì che spesso si depositano i segni che ci trasformano nelle persone che diventeremo. È come se entrambe costruissimo un puzzle: ci scambiamo i tasselli e insieme capiamo dove vanno messi. La conoscenza enciclopedica di Maria Luisa si fonde con la mia, che è più emotiva. Alla fine ci guardiamo e sorridiamo: il quadro finale è bello.
Corpi e tessuti: due aspetti che nella moda si sono evoluti in modo esponenziale. Mi riferisco soprattutto alla consapevolezza sia dell’aspetto fisico di modelli e modelle sia dell’impatto ambientale dei capi indossati.
MLF: Credo che dobbiamo imparare a considerare la moda nella sua complessità. Una galassia in continuo movimento in grado di captare le vibrazioni del tempo e trasformarle. Negli ultimi anni la moda ha contribuito a consolidare una nuova consapevolezza culturale, sociale, politica presso un pubblico definitivamente globale.
La moda è l'architettura più prossima al corpo. L’abito è impronta del corpo che lo abita, come del desiderio che lo abita. Nel 2019 the little person Sinéad Burke – avvocata e attivista nata nel 1990, appassionata di moda che nel suo TED talk del 2017 aveva spiegato “Why design should include everyone” – appare sulla copertina di British Vogue diretto da Edward Enninful.
Sicuramente un contributo potente alla rottura della sequenza dei corpi conformi che popolano la moda. Non parlerei poi di impatto ambientale dei capi indossati. La questione della sostenibilità della produzione di un capo di abbigliamento o di un accessorio va letta soprattutto in chiave di tracciabilità e della pratica dell’etichettatura etica.
Maria Luisa Frisa e Chiara Tagliaferri sono fotografate da Alan Chies nella galleria kaufmannrepetto di Milano. Alle spalle il lavoro di Andrea Bowers (Political Ribbons2022, silkscreen inkon satin ribbons,site specific installation, variable dimensions 1000 ribbonsCourtesy of the artist and kaufmannrepetto Milano / New York).
Quali tra le voci delle autrici e degli autori con cui avete avuto modo di rapportarvi è riuscito ad infondervi un punto di vista differente?
MLF è incredibile come ogni autore, ogni autrice sia riuscito a darci una prospettiva diversa e a offrire interessanti spunti di riflessione su quello che oggi vuol dire essere direttore creativo. Sono emerse per esempio la responsabilità che tutti avvertono nel ricoprire un ruolo che ha una così grande visibilità.
Tra gli ospiti ci sono anche Maria Grazia Chiuri (Dior), Alessandro Michele, Pierpaolo Piccioli (Valentino), Francesco Risso (Marni); quando vi hanno parlato delle loro infanzie avete notato dei particolari che li hanno accumunati?
CT: Il fatto di nascere lontani da dove le cose accadono, forse. Che fossero quartieri romani fuori dalle traiettorie del centro, comuni sul mare o addirittura una barca (dove è nato Francesco Risso), sono tutte persone che hanno saputo intravedere le opportunità contenute nei limiti. La periferia delle cose è un meraviglioso limite: ti dà quella fame che ti fa sognare grandissimo per sopravvivere in uno spazio che non riconosci come tuo.
Chiuri, Piccioli e Michele hanno poi in comune Roma: terra di mezzo in cui la dimensione del sogno e del possibile si incrociano dando vita a uno spazio di libertà dove la creatività prolifica in una dimensione profondamente umana. Ricordo che Chiuri ci ha raccontato di uno scambio avvenuto con il responsabile della comunicazione di Dior, appena si sono conosciuti. A un certo punto lei gli ha detto: "Io vengo da Roma", e sono scoppiati a ridere entrambi perché sembrava posseduta da Massimo Decimo Meridio ne “Il Gladiatore”. In qualche modo, se cresci a Roma, con tutte le stratificazioni culturali che ci sono, sei vaccinato per la vita.
Il podcast vede il supporto della Camera Nazionale della Moda Italiana; in cosa siete state supportate?
MLF: per il significato che volevamo dare al nostro lavoro, era importante avere il supporto di una istituzione che rappresenta la moda del nostro paese. Un supporto economico e insieme un confronto e una condivisione delle intenzioni.
Il podcast nasce anche per valorizzare la moda italiana attraverso le parole dei suoi autori e delle sue autrici. Per costruire una narrativa che non sia solo quella che viene fatta nel momento della presentazione di una collezione, ma che sia capace di restituire i valori e la qualità di un sistema fatto di tante autorialità, unico nel mondo.
La moda è quindi vissuta come una fede talvolta? Per voi? Anzi: cos’era e magari cos’è diventata nel tempo dal vostro punto di vista?
MLF Per me la moda è sempre stato un modo di trascendermi. Non mi sono mai considerata bella: piccola, con le gambe grosse, eppure non ho mai rinunciato a mettermi quello che mi piaceva. Sempre decisa a essere diversa dalle mie amiche. A distinguermi. Ancora oggi le amiche dell’adolescenza si ricordano quello che indossavo. Quando passai l’esame di terza media chiesi in regalo un mini abito di Ken Scott non coi fiori ma con le teste di civetta.
La moda per me era un progetto personale importante che mi ha aiutato a essere me stessa con i miei sogni e i miei desideri. Mi sono sposata a 17 anni con un cappotto di velluto di Roberta di Camerino perché non sopportavo e trovavo ridicoli gli abiti da sposa.
Non ho pensato però di studiare moda, quando dopo una interruzione mi sono rimessa a studiare, ma storia dell’arte. Sono arrivata alla moda come disciplina di studio più tardi, quando mi sono resa conto che era uno straordinario punto di osservazione sulla contemporaneità.
CT: Non so bene da dove è cominciata, per me. Non ricordo nessun abito pazzesco visto su mia madre, o mia nonna. Nessuna sarta dalle nostre parti che ci cuciva vestiti su misura. La meraviglia me l’ha portata Raoul Casadei: devo a lui il mio amore per il tulle, l’organza, i lustrini e gli abiti improbabili.
In Emilia-Romagna il tempo scorre in modo strano: la polvere divora alcune cose, ma non intacca altre che, superati i confini regionali, si immaginano dimenticate. E invece le balere resistono, e crescono ancora gli alberi della cuccagna. E Casadei era un prestigiatore: faceva uscire dagli armadi degli adulti prodigi insperati e miracoli di chiffon, muovendosi in perimetri che fulminavano all’istante il senso del decoro. Riusciva, soprattutto, a sostituire la paura della vergogna – così radicata dalle mie parti – con il desiderio di essere visti, e riconosciuti da lontano.
Con i vestiti puoi mentire: una volta ho letto che Audrey Hepburn andava ai primi provini indossando sempre lo stesso abito, ma cambiava il foulard e sembrava ogni volta elegantissima e appena uscita da una boutique. Personalmente, ho utilizzato per anni i vestiti come promessa, sogno, voragine e riscatto. Andavo a visitare case che non potevo permettermi, mi vestivo elegante: “trattatemi da ricca”, esigevo. Anche gli animali, i più grandi maestri di travestimenti in natura, ci insegnano che i colori e le forme possono essere illusioni per accoppiarsi, mimetizzarsi, uccidere alla bisogna.
L’identità di genere e la maggiore consapevolezza oggi rispetto al passato ha cambiato anche la moda e i suoi canoni, che erano anche fin troppo definiti e chiusi…?
MLF: In questi ultimi anni la moda si è mossa sicuramente con più determinazione, registrando le istanze della comunità LGBTQ+ che ripensa creativamente il sesso, il genere, le relazioni influenzando il superamento degli stereotipi, e contemporaneamente, sottolineando come i territori della sessualità siano segnati dall’ambiguità.
Non sono d’accordo però nell’affermare che la moda e i suoi canoni sono stati in passato troppo definiti e chiusi. La moda ha sempre avuto territori di trasgressioni e periodi storici in cui la libertà nell’abbigliamento dell’uno e dell’altro sesso era pressoché totale. Ma qui dovremmo aprire un altro capitolo.
CT: “L'unico canone è che non ci siano più canoni” è una frase che Pierpaolo Piccioli ci ha detto nell’intervista che gli abbiamo fatto. Costruire una collezione partendo dai corpi così meravigliosamente diversi nella loro unicità, rende la couture contemporanea.
Ricordate il primo capo di abbigliamento che avete comprato con la consapevolezza di averlo solo per voi? Quindi non più i vestiti comprati da mamma o papà?
MLF Devo dire che sono sempre stata piuttosto libera di scegliere quello volevo indossare. Anzi ho obbligato i miei a comprarmi le cose che vedevo e che in quel momento mi parevano irrinunciabili. Andavo ancora alle medie e a Roma al Piper mi feci comprare le camicie a fiori che portava Antoine, in un viaggio a Bologna un montone bianco che puzzava ancora di stalla.
Forse però le prime cose che ho comprato autonomamente sono state quelle di Fiorucci. I jeans che si allacciavano solo se ti stendevi sul letto, le magliette ma non quelle con gli angeli perché le avevano tutti.
CT: Un montone rosso di Gianni Versace con le frange, gli alamari incorniciati dalle sue teste di medusa: roba da cowgirl della Bassa Padana, ero catarifrangente nella nebbia. L’ho venduto in un momento di magra a un mercatino per un niente: lo penso ancora, mi chiedo dove sia finito e gli domando perdono ovunque adesso sia.
Mentre dalle parole degli ospiti cosa vi è arrivato del loro modo di “vivere la moda”?
MLF La moda è stata una passione, a volte un’ancora di salvezza, altre una possibilità che è diventata un lavoro di grande soddisfazione.
CT: Francesco Risso, durante l’intervista ha detto “la moda ci accompagna in tutti i nostri movimenti. E forse è quella la mia passione: i movimenti. La cosa che mi emoziona di più sono i vestiti applicati, o comunque i vestiti che si vedono in strada o nella vita.” La sua risposta mi è piaciuta particolarmente perché dà la misura di quanto la moda sia un continuo divenire, capace di raccontare il tempo in cui viviamo.
Stavo guardando un tuo post Chiara, ma la domanda è anche per Maria Luisa: citavi il libro “Il Gruppo”. Ho pensato che spesso la moda e quindi il vestirsi in alcuni momenti storici ha davvero reso libere le persone, in altri un’omologazione e una “schiavitù”. Oggi in quale delle due direzioni stiamo andando?
MLF:La moda è impronta dello spirito del tempo, e allo stesso tempo è un modo per rappresentare i cambiamenti in atto. Cambiare il mondo vuol dire anche cambiarsi d’abito.
Per le donne, ma anche per gli uomini, decidere di indossare un indumento o anche di non indossarlo, penso al busto o al reggiseno, può essere un atto rivoluzionario che registra cambiamenti sociali in atto.
Nonostante lo schema binario, i vestiti sono sempre stati strumenti privilegiati nel contrastare comportamenti stabiliti a priori e norme sociali. L’abito è un simbolo, uno strumento in mano ai gruppi sociali alternativi, nei movimenti di liberazione sessuale. In questi casi essere parte di situazioni che condividono sensibilità e orientamenti sessuali serve a non sentirsi soli e a non sentirsi sempre diversi.
Riflessioni complesse e affascinanti che ci dicono molto sul potere degli abiti. Oggi secondo me potrebbe esserci una grande libertà. Insegnando all’Università sono affascinata dal modo di vestire dei miei studenti e delle mie studentesse. Il problema sono tutte le rubriche, i siti, le newsletter che si impegnano a dare consigli che invece di liberare le persone le costringono tra le categorie dei must have di stagione e come dovresti pettinarti per sembrare più giovane.
CT: Indumenti che storicamente sono stati eversivi e rivoluzionari, spostati di contesto o epoca ottengono l’effetto contrario. Penso a Marlon Brando con il giubbotto da biker ne “Il Selvaggio”: lui non si limitava a indossarlo, era la sua seconda pelle. Poi penso a Matteo Renzi che sceglie una giacca da motociclista per presentarsi ad “Amici” di Maria De Filippi: quello è un tentativo maldestro di simulare una condizione esistenziale, di fatto però è l’abito ridotto a strumento di consenso elettorale, un tentativo di convincere i giovani a farsi votare. Il risultato è un travestimento carnevalesco. L’opportunità di libertà portata da Marlon Brando non esiste più.
Ogni volta che entro in una qualsiasi catena di Fast fashion e vedo centinaia di magliette finte punk, con borchie e strappi già pronti, penso che non ci sia più nulla di sovversivo; anzi, ti danno una perfetta idea di conformazione a un modello sdoganato da tristi show televisivi pomeridiani. E mi viene in mente Vivienne Westwood quando raccontava: “Non mi consideravo affatto una fashion designer negli anni del punk, usavo semplicemente la moda per dare corpo alla mia resistenza, alla mia ribellione”. Dal caos nascevano i suoi abiti tagliati, ricuciti e riempiti di spille da balia, un tripudio di lamette, collari borchiati, kilt strappati. Come un alchimista, ha trasformato una subcultura in moda.
Oggi vedo giovani ragazze e ragazzi pronti a indossare la loro libertà senza preoccuparsi di somigliare ad altro che a se stessi, ed è un gran sollievo.